Andrea Canavese
Psicologo e Psicoterapeuta, Docente e Socio Ordinario con funzioni didattiche IPP
Conosco le leggi del mondo,
e te ne farò dono
(Franco Battiato, “La Cura”, 1997)
Una delle cose che più mi perplime, nell'attuale panorama delle psicoterapie, è non tanto l'affannosa ed illusoria ricerca della standardizzazione e del protocollo generico da adoperare in ogni situazione (storia ormai vecchia), quanto il fatto che questo desiderio della ricetta magica abiti una fetta sempre più consistente degli psicoterapeuti.
Certamente posso comprendere, soprattutto verso gli allievi candidati a questo impossibile lavoro, quanto lo schema aiuti a sentirsi ancorati a qualcosa percepito come buono, come fosse una boa in alto mare che delimitala balneazione sicura oppure cui aggrapparsi quando il mare è in tempesta.
Ma da aderente, per scelta, alla prospettiva psicoanalitica, non posso non vivere ogni consuetudine che con una punta di sospetto: questa paranoia mi deriva dall'aver concretamente esperito il reale della nevrosi.
Così come i nostri pazienti sono incatenati ad una spirale, per loro irrisolvibile, di pattern, così noi psicoterapeuti possiamo arenarci facilmente in pedisseque, pedanti e aride ripetizioni di interpretazioni e modelli interiorizzati con l'ausilio di un super-io mai tanto noioso come in questi frangenti.
Il problema è che noi psicoterapeuti dobbiamo fare i conti con un paio almeno di trappole mentali ulteriori rispetto ai nostri pazienti: possiamo intellettualizzare la tecnica fino a crederla una Verità spirituale, dogmatica, attribuendole ben più potere di quanto ne abbia effettivamente o, peggio ancora, credere che abbia un potere sbagliato; possiamo essere passati sotto le mani di uno psicoterapeuta più anziano che non ha rispettato, come avrebbe dovuto, la nostra dignità e la nostra libertà.
Come la nevrosi è una mal adattiva dotazione di senso a un mondo che altrimenti risuonerebbe intollerabilmente anomico e cattivo, così la convinzione, spesso acritica, che esista un modello psicoterapeutico unico, giusto e buono per tutti appare, più che ricerca scientifica, un rifugio da un ignoto innominabile e spaventoso: la nostra anima è in realtà fatta di punti ciechi, di caverne dentro le quali i suoni e le immagini si muovono, ai nostri comuni sensi coscienti, in distorsione.
Distorsioni che appartenendo a ognuno di noi, singolarmente e unicamente, non possono poi per davvero essere imprigionate in sistemi diagnostici a punti e mensilità varie: la nostra “depressione”, tanto per fare un esempio, non può essere incasellate in cinque o sei sintomi che durano da almeno sei mesi… la nostra angoscia merita innanzitutto un linguaggio migliore.
Se la sfrenata creatività sintomatica categorizzante della clinica attuale si fermasse al gioco del trovare nuovi nomi per i vecchi problemi dell'essere umano, forse non ci sarebbe granché da storcere il naso, ma il mondo viene creato dal linguaggio: se parlo di “sintomi”, “disturbi” e “patologie” dovrò ben, a meno di non essere completamente pazzo, credere che esista una “salute mentale”, ovvero uno stato nirvanico di perfetta gestione dell'angoscia.
Ma questo, come ogni clinico sufficientemente sensibile sa, è un mito fasullo: la presunta “sanità di mente” esiste solo negli schemi oniroidi dei vari apparati medici, giudiziari ed assicurativi dove c'è l'assoluto bisogno di creare, a fondamento del totem ideologico di riferimento, una norma di condotta basilare che giustifichi politicamente ed economicamente il ricorso ad una terapia, meglio se standardizzata nella durata, nelle tecniche da adottare per tutti e nei risultati che il paziente deve impegnarsi per ottenere.
Ogni deviazione dalla presunta norma corrente in un preciso momento storico e culturale va subito incasellata e messa a tacer con il farmaco e con una “psicoterapia” che sa tanto di rieducazione al discreto fascino della borghesia, quella che si maschera di traballanti etichette in società mentre cerca disperatamente e con scarno successo di reprimere i suoi propri demoni che, maligni e sardonici, sanno benissimo stare alle regole gioco manifestandosi dove meno li si aspetta.
Ecco che il Panico entra in scena, il terrore senza nome prende parte alla commedia invadendo il campo in ogni dove: non rimane altro che trovar del marcio dappertutto, sia mai che si trasformi in angoscia e si debba stare troppo a lungo faccia a faccia con se stessi.
Lutto, infedeltà, perfezionismo... tutto deve diventare patologia da zittire: oggi un film come “i 400 colpi” non si potrebbe più fare, il giovane Antoine Doinel verrebbe probabilmente riempito di farmaci nel primo CSM vicino casa, la scuola gli appiopperebbe un certificato di fannullone speciale e i genitori vedrebbero il figlio ben di meno... E in giro non c'è sicuramente, almeno al momento, un regista così attento e sensibile come François Truffaut!
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Ma non tutto è perduto, c'è ancora una speranza di uscita da questo asfittico scenario.
In quest'epoca così fintamente liberale, così ipocrita e boriosa, c'è d'altronde ancora la possibilità di dare “Un Altro Giro” alle cose come avviene nell'ultimo, splendido, film di Thomas Vinterberg dove i protagonisti riescono, chi più chi meno e soprattutto ognuno a modo suo, a destarsi dal proprio torpore nichilista e tornare a danzare con propri demoni, festeggiando la vita ritrovando l'amicizia e l'amore, bevendo via la mortificazione dell'essere inautentici.
L'ignoto fa paura oggi come in tutta la storia della nostra specie, si cercano appigli di ogni genere cui aggrapparsi nella navigazione adesso come ai tempi di Odisseo: ciò che cambia, epoca per eone, è il linguaggio che usiamo per esprimere questa nostra umana, troppo umana e perciò davvero cardinale,
angoscia.
A discapito di un linguaggio scientista che di realmente scientifico ha poco, pochissimo, preferisco quindi scegliere il linguaggio del mito, della filosofia, della musica.
Allo scomodo paradigma del “protocollo ansia” caro a certe correnti psicoterapeutiche, preferisco accomodarmi nel metodo socratico, il migliore per sempre, ovvero star seduto in una stanza con un'altra persona e parlare, ascoltare, rivivere, rivedere, ripensare.
All'arroganza del voler insegnare al prossimo come pensare, come fare, come vivere, preferisco l'imparare dall'altro come vive ciò che gli passa nella mente e ciò che cerca di fare, lei/lui come me, nel mondo: seguo la via della psico-educazione (termine che meriterebbe onori ben più grandi di quanto certi sedicenti psicoanalisti concedono dai loro mausolei), mi metto a studiare la mente insieme al paziente.
Al farmaco che annulla il sé, preferisco lo psicofarmaco del collega psichiatra, quello formato anche con la cura della parola, che calma il dolore affinché sia più agevole proseguire il dialogo.
Piuttosto che dar ragione alla teoria o cercare “edipicamente” (povero Edipo, qualcuno lo liberi dal fardello “freudiano” una volta per tutte…) l'approvazione di qualche vecchio maestro preferisco sentire la ragione d'essere dell'anima del mio compagno di viaggio in analisi.
Tutto ciò senza mai tirarmi indietro, senza aver paura di aver paura, sbagliando, stando in disaccordo, condividendo con colleghi super-e inter-visori: offrendomi, insomma, in tutto ciò che posso essere capace di dare.
Psicoterapia non vuol dire altro che essere al servizio dell'anima, non indica altro che il mettersi in posizione di accoglimento, nel proprio animo, della mente altrui: la cura può avvenire solo e soltanto in uno scambio umano attento, empatico e partecipe.
Non c'è e non ci deve essere spazio, nella cura psicoanalitica, per l'assillo di voler eliminare il sintomo: sarebbe un assassinio dell'anima.
In psicoanalisi la via regia è quella dell'offrirsi all'ascolto partecipe del discorso altrui per creare un dialogo fecondo che trasformi l'angoscia di morte in angoscia di vita.
Noi stessi dobbiamo essere in grado di saperci donare l'uno all'altro, in fondo, se vogliamo davvero poter vivere.
E ciò può avvenire solo se noi psicoterapeuti siamo in grado di darci sinceramente all'incontro con l'altro, a seguirlo senza pregiudizi di sorta, accettando di condividere pienamente il cammino che l'altro s'è impegnato così duramente di proseguire.
Franco Battiato lo dice egregiamente: le arti vanno studiate a cuore aperto e sincero, e la conoscenza che ci viene concessa va donata.
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